ENEIDE DI UNA SCIALUPPA SENZA DERIVA

“Dai salta”

Due piccoli passi per ritrovare l’equilibrio e poté abbassare le braccia, che aveva tenuto larghe e tese per mantenere la stabilità dopo il piccolo salto sulla barca. Io mi sarei seduto a prua e lei mi avrebbe imitato a poppa, ma con più insicurezza: non le piaceva il legno umido, aveva bisogno di tempo per entrarci a suo agio, per domarlo con movimenti che non fossero contratti e rigidi. Mandai il mio sguardo in avanscoperta sul molo. La sedia di Don Gennaro era vuota, potevamo rimanere lì finché non fosse ritornato. Lasciai a lei la poppa perché più larga, stabile, comoda. Nonostante la mia stazza imponente, la cui goffaggine intrinseca era enfatizzata dal pavimento basculante, mi accomodai a prua, mettendomi di sguincio per potervici entrare con entrambe le gambe.
“Ei, sei stretto lì. Scambiamoci di posto.”
“No, grazie mi arrangio. Rimani pure lì”

Nel finire la frase mi si aprì un sorriso incontrollato che subito mi sforzai di celare con una vena d’imbarazzo, che lo trasformò in una smorfia inconsulta che mi affrettai a nascondere con le mani, fingendo uno starnuto. Sapevo che una volta che i nostri piedi avessero ripreso a poggiare sulla sicurezza del molo, del nostro incontro non sarebbe rimasto che un leggero mal di terra: un vago ricordo somatizzato in una costante ondulazione, solo percepita, un inganno dell’equilibrio. L’indomani tutto sarebbe scomparso, lei sarebbe scomparsa, ancora.
Il mare era nero. Galleggiavamo su un lago di petrolio, liquido ma omogeneo, come un tappeto che oscillava sotto la pancia dell’imbarcazione, accompagnando le nostre parole, enfatizzando i movimenti; spingendoci l’uno contro l’altro quando era opportuno e allontanandoci quando la tentazione spingeva verso il rischio di un bacio.

I flussi delle parole celavano con efficacia altalenante le nostre reali intenzioni. Esse erano relegate alle segretezza del sub-conscio per il rifiuto categorico di riconoscerne come tali, invece che come istinti malevoli. Mere pulsioni dovute ad un pendolo che stazionava da ormai troppo tempo nella medesima posizione, privandoci di quell’ebrezza che eravamo capaci di provare solo quando la gravità, per un infinito quanto volatile istante, si sospendeva esattamente al centro del semicerchio disegnato dal corso della vita, prima di tornare di nuovo ad un estenuante tranquillità. Sapevamo di desiderarci così come che questo non dovesse essere vero. Intanto la barca continuava a bisbigliarmi suggerimenti dalle feritoie di legno che frinivano sotto le pesanti carezze di un pacifico mare di libeccio.

Ci limitammo a svuotarci il cuore l’uno all’altra, sino alle più piccole e misere paure, sino a quelle sensazioni segrete, come il piacere che si prova nel rivoltare il cuscino in una nottata afosa, che una volta scoperte comuni, provocano una risata coordinata e sincera, cui il non poter far succedere un bacio era la corsia preferenziale per infiniti attimi di imbarazzo, che cercavo di rompere con una spontaneità che non mi apparteneva affatto.

Sembrava di viaggiare per i mari più arditi, quando in realtà la cima era ancora legata al molo. Forse non avevamo bisogno di sganciarla per partire insieme, forse dovevamo ancora stare lì per un po’, attraccati, aspettando che il petrolio diventasse mare e che le incognite fossero illuminate dal fuoco di un’alba che, forse, nemmeno attendevamo più.

“Wagliù, saglite! Amma ascì pe’ mare!”
“Bonaser ‘On Genna! Subito facimm’!”

Nei suoi occhi lessi che avrebbe avuto voglia di restare lì ancora un po’, non sapeva nemmeno precisamente quanto ma sapeva di sicuro che il tempo, quella sera, in quell’alveolo, non era stato abbastanza. Lo percepì come se fosse stato dipinto a chiare lettere dalle pennellate della sclera sulla tela dei suoi iridi, talmente bianchi, da diventare la mia fonte di luce in quella fotografia sottoesposta in cui cercavo di muovermi con perizia palesemente millantata.

“Era paricchij can un ve vedevo. Quando vulite nuje ‘cca stamm! Riman ‘e matin passa a pija doje alici che ce pripar a sta bella peccerella”

Concluse la frase, allungata a causa delle rumorose pause che la bronchite gli imponeva alle conversazioni, con un sorriso: bianchissimo, con una cornice di rughe profonde e abbronzate solo nella loro parte più superficiale.
Mi limitai a ricambiargli il sorriso: un cenno circostanziale che mi fu fisicamente spinto fuori dalla faccia dalla mano sinistra che mi carezzava nervosamente la nuca, per creare una distrazione fisica all’imbarazzo che intrappolava le parole dietro un invalicabile cancello di mattoni ossei.
Dopo qualche passo fummo l’uno di fronte all’altra per dirci addio. Ci limitammo ad uno stretto abbraccio e ad un sorriso, questa volta spontaneo: un compendio per niente esaustivo di quello che intanto stava succedendo tra gli ectoplasmi delle nostre anime che, libere da ogni forma di convenzione e restrizione, facevano l’amore, giusto a metà tra le nostre schiene che si allontanavano vicendevolmente, trascinando via, passo dopo passo, dettagli e forme di quei baci mai compiuti, fino a farli scomparire, confondendosi con l’aria.
Tornai spesso su quel molo, ogni volta che avevo bisogno di riflettere. Quando lo facevo di prima mattina Don Gennaro mi fermava prima di avviarsi al suo banco della Caracciolo con in groppa le bare di polistirolo in cui riposava il pescato. Mi offriva un piccolo gambero, o qualunque cosa ritenesse fosse il meglio che il mare avesse da offrirci quella mattina. Lo vestiva con una cascata di succo di limone e poi mi osservava mentre lo mandavo giù, appagato dal piacere sincero che il sapore mi faceva tradurre con un lento suono gutturale di piacere.

“Grazie Don Gennà”
“E fernescila e’ ringrazia! A prossima vota te ne voj purta doje, no uno…capisc’ a mme, doje!”
“E comm nun capisc’ ‘On Genna!” Sorrisi

Una pacca sulla testa mi trasmetteva il suo sincero affetto, prima che si allontanasse a trasformare i regali del mare nel “pisone” che doveva ormai da mesi al proprietario di casa e che, purtroppo, non si pagava ad alici. In molte notti credetti di vederla sulla stessa barca, ma con qualcun altro. Decidevo di voltarmi e lasciare che il buio lasciasse quelle sagome nere a recitare sul palco delle mie paranoie: scoprirlo sarebbe stato doloroso, non scoprirlo, un inutile placebo. Sarebbe successo altrove, lei comunque non era qui e quella magra consolazione non avrebbe cambiato nulla. Mi piaceva immaginare che le controfigure che erano rimaste a scambiarsi baci in quella sera ormai lontana, passassero ancora di lì, ogni tanto, in quelle ore che succedevano alla notte e anticipavano l’alba; quelle ore che rimangono disabitate sia dai pescatori che dai superstiti della serata ormai passata. Lo speravo con sempre meno consapevolezza, sempre di più come fosse una fede senza radici nel razionale. Ero perso tra convinzioni e percezioni opposte, orfano in grembo e naufrago in terraferma. Sapevo che ogni azione sarebbe stata tradotta nel suo opposto in un momento così delicato: la ricerca in smania, la richiesta in petulanza, la passione in molestia; decisi perciò di fissare il mare, inerme. Stamattina il gambero era buonissimo, al punto che ne rubai un altro che ancora si scuoteva sulle tavole della barca. Stamattina il sole splendeva. Per un secondo, avevo smesso di pensare.

DDL




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